La gestione della fauna selvatica non può essere attuata sulla base di ideologie o sentimentalismi. Va concordata con il Mondo agricolo e, dove possibile, con le filiere alimentari. O si imbocca questa strada con coraggio e pragmatismo o si continuerà a inseguire l’emergenza, tra danni, proteste e rimpalli di responsabilità

di Eugenio Demartini e Roberto Viganò
Negli ultimi decenni le interazioni fra la cosiddetta “società civile” e la fauna selvatica hanno registrato un incremento esponenziale. L’abbandono delle aree montane e collinari ha favorito il rimboschimento di territori un tempo destinati all’agricoltura creando condizioni ideali per l’aumento demografico delle specie selvatiche mentre le politiche di conservazione avviate a livello nazionale e pensate per tutelare specie rare o in via di estinzione negli Anni 80 e 90 pur avendo raggiunto i risultati attesi non hanno tenuto conto che nel frattempo il contesto ambientale e sociale era cambiato. Il rapporto uomo-animale è diverso da quarant’anni fa.
Fauna selvatica, in crescita la sensibilità protezionistica
E’ cresciuta una sensibilità protezionistica ed è calato il numero di cacciatori, fattori cui si aggiunge una pressione indotta della globalizzazione che ha facilitato l’introduzione spesso involontaria di nuove specie. Una concausa di fattori cui si è poi aggiunta la peste suina africana che innescato una crisi, peraltro annunciata ma ignorata per anni nonostante i ripetuti allarmi da parte di tecnici e operatori del settore, che pesa economicamente sul Mondo agricolo.
Non a caso questi chiede con forza piani di contenimento delle specie più moleste per le colture, richiesta comprensibile considerando che tali danni vengono raramente indennizzati, ma che non avrebbe ragion d’essere se solo si applicassero gli strumenti normativi per il contenimento delle specie invasive in essere. Cosa che non accade causa conflitti tra interessi politici e sociali e la lentezza degli apparati pubblici che spesso preferiscono cavalcare le polemiche e non agire con decisione. Gli esempi non mancano. Si pensi alla nutria, insediatasi stabilmente lungo i corsi d’acqua grazie a fughe e rilasci volontari.
La sua equiparazione a topi e talpe, Legge 157/1992, ha generato una confusione normativa, aumentato i costi di gestione e impedito ogni possibilità di valorizzazione economica. Nonostante in altri Paesi sia considerata una risorsa alimentare e in alcuni casi anche pregiata, Italia è vietato utilizzarne le carni persino per la produzione di mangimi per animali domestici.
Il caso del lupo
Altro caso emblematico quello del lupo. Il declassamento da “specie particolarmente protetta” a “specie protetta” ha suscitato reazioni scomposte da parte delle associazioni ambientaliste, ma in realtà le misure di gestione per gli esemplari problematici sono già previste da tempo a livello europeo e nazionale. Altro esempio l’ibis sacro, specie che ben evidenzia l’immobilismo insito in un certo approccio conservazionista. La sua diffusione è legata solo a fughe da collezioni private e giardini zoologici e secondo Ispra l’eradicazione sarebbe tecnicamente possibile se solo esistesse un piano di controllo specifico a livello nazionale.
In Abruzzo poi il caso della gestione del cervo del 2024 evidenzia quanto i dibattiti siano spesso viziati da logiche ideologiche. Nonostante una corretta pianificazione e la proposta di prelievi minimi basati su censimenti han dato luogo a reazioni ambientaliste di totale chiusura, con motivazioni lontane da ogni fondamento tecnico e legate più alla propaganda che alla gestione del territorio.
Tutelare ogni singolo animale “a prescindere” non è infatti “conservazione”, è un animalismo che si discosta nettamente dal concetto di tutela dell’habitat sancito dalla Convenzione di Berna del 1979 e ratificato in Italia nel 1981. La stessa Unione Europea, nel 2003, ha adottato una Strategia sulle specie aliene invasive che promuove interventi di contenimento proprio per tutelare gli equilibri ecologici e salvaguardare habitat e specie autoctone.
Ne deriva che una vera politica di conservazione deve prevedere anche strumenti di gestione attiva in un’ottica di equilibrio tra biodiversità e presenza umana. Attività che devono essere svolte nell’ambito del controllo faunistico previsto dall’articolo 19 della Legge 157/1992 da figure professionali strutturate, formate, certificate e controllate.
I cacciatori professionisti. In alcune Regioni, come la Lombardia, sono figure già introdotte in via sperimentale e il loro costo è sostenuto dal Servizio sanitario regionale. Si tratta però di una misura non sostenibile nel lungo periodo che potrebbe invece diventarlo se si favorisse una collaborazione strutturata con il Mondo agricolo dando luogo a una sorta di contoterzista preposto a operare su incarico pubblico o privato per ridurre i conflitti tra fauna selvatica e attività umane. Una gestione integrata che preveda anche l’immissione in filiera alimentare delle carni di selvaggina o compensazioni per gli interventi su specie non commerciabili, permetterebbe di dare dignità a un’attività fondamentale per l’equilibrio del territorio e per la sopravvivenza di molte aziende agricole.
Titolo: La fauna selvatica da problema a risorsa
Autori: Eugenio Demartini e Roberto Viganò